L’organizzazione era formata da quattro albanesi e un bergamasco. Nelle borse delle lucciole venivano inseriti trasmettitori dotati di schede telefoniche in grado di registrare gli incontri in auto
Si è concluso con cinque condanne il processo, celebrato davanti al giudice dell’udienza preliminare Bianca Maria Bianchi, contro la banda di albanesi accusata di aver gestito fino all’ottobre del 2009 il racket della prostituzione sulla strada provinciale tra Villa d’Almè e Dalmine.
L’organizzazione, secondo gli accertamenti dei carabinieri della stazione di Curno, controllava le prostitute attraverso delle microspie che facevano tenere alle ragazze, quasi tutte romene, nelle loro borsette, anche durante gli incontri con i clienti, in modo da controllarne gli incassi.
Tutti gli imputati sono stati giudicati con il rito abbreviato che, in caso di condanna, consente di ottenere lo sconto di un terzo sulla pena finale. La pena più pesante, 9 anni e 8 mesi di reclusione, è stata inflitta a D.L., 24 anni, residente a Bergamo. Sei anni e 4 mesi di carcere sono invece stati comminati a D.S., 31 anni, di Alzano Lombardo, mentre E.N., 23 anni, di Mira (Venezia) è stato condannato a 3 anni e 10 mesi. A tutti e tre gli imputati il gup ha riconosciuto l’aggravante della riduzione in schiavitù delle lucciole.
Se la sono cavata con pene più basse R.G., 27 anni, di Bergamo (2 anni e 8 mesi) e G.F.M., 63 anni, bergamasco di Osio Sotto, l’unico italiano che faceva parte della gang con il compito di trasportare le prostitute sul luogo di lavoro (1 anno e mezzo).
L’indagine degli investigatori era scattata a seguito della denuncia di una delle ragazze sfruttate, di soli 19 anni, arrivata in Italia dalla Romania con il sogno di un lavoro normale ma ben presto costretta a prostituirsi all’altezza di Mozzo. Dopo due mesi di indagini, i carabinieri avevano arrestato l’albanese di 23 anni e in seguito erano finiti in manette anche gli altri componenti della banda.
Le microspie utilizzate dagli sfruttatori per controllare le lucciole sfruttate erano di fabbricazione cinese: si trattava di piccoli trasmettitori dotati di schede telefoniche che permettevano agli albanesi di ascoltare, in tempo reale, tutto quello che avveniva, dove si trovavano le ragazze, in strada o quando si appartavano con i clienti.
Nell’ottobre 2009 una delle giovani lucciole, una romena di 19 anni, aveva trovato il coraggio di denunciare i suoi aguzzini. La giovane era salita su un’auto dei carabinieri, impegnati in un servizio di controllo e aveva chiesto aiuto soltanto con dei gesti, lasciando intendere che qualcuno la stava ascoltando. E così era: nella borsetta i militari avevano trovato la microspia.
Fonte: Il Giorno