Esistono guerre senza medaglie, esistono guerre senza onore e senza campi di battaglia. La «Guerra fredda» è stata così. Tanto più che fredda non era per niente, soprattutto per chi si trovò a combatterla. Era crudele, viscerale e disperata, bollente ma sotterranea come il magma pronto a esplodere in una devastante deflagrazione. E se non causò milioni di vittime (arrivò più volte a un passo dal farlo) fu solo perché gladiatori misteriosi, su entrambi i fronti, fecero bene le loro mosse su una scacchiera che nessuno era autorizzato a vedere. Lo scopo non era lo scacco matto, piuttosto l’equilibrio, la vittoria tattica che non avesse come risultato un’escalation strategica.
Il saggio di Phillip Deery – professore australiano e vero geniaccio della storia dei servizi segreti – e Mario Del Pero – insegna storia degli Stati uniti all’Università di Bologna – appena uscito per Feltrinelli (Spiare e tradire. Dietro le quinte della Guerra fredda, Feltrinelli, pagg. 254, euro 17) accompagna il lettore proprio a esplorare le trincee immateriali dove fu combattuta questa logorante battaglia. È un libro agile e molto meno pedante della maggior parte delle pubblicazioni in materia. Parte dalla vita delle spie che più di tutte hanno contribuito a stabilire gli equilibri d’intelligence tra le grandi potenze: James Jesus Angleton, Kim Philby, Klaus Fuchs, Igor Gouzenko, Alger Hiss, Ethel e Julius Rosenberg, Vladimir Petrov e Aldrich Ames.
Questi cammei che ricostruiscono le incredibili esistenze dei singoli, le loro peripezie e i loro doppi giochi, non sono però fini a se stessi, perché servono a ricostruire il clima di un’epoca. Prendiamo a esempio il capitolo dedicato a James Jesus Angleton che fu a lungo l’uomo più importante della Counterintelligence americana. Testardo, figlio di una messicana e di un avventuriero dell’Idaho, maniacale coltivatore di orchidee, geniale critico letterario, si lasciò sedurre dal fascino dei servizi segreti. Divenne così uno degli uomini di punta prima dell’Oss e poi della Cia occupandosi direttamente dello scacchiere europeo e italiano in particolare. Meticoloso e combattivo, avverso ai sovietici sin dalla Seconda guerra mondiale, vedeva l’attività di spionaggio come una giungla di specchi da cui non farsi ingannare. Ecco perché a capo del Counterintelligence Staff (Cis) scatenò all’interno dei servizi americani una caccia alla talpa che costò la carriera anche ad agenti non compromessi in alcun modo con l’Urss.
Bene, proprio lui concesse fiducia assoluta e assai mal motivata a Kim Philby, l’aristocratico inglese marxista sin dall’università che ebbe (dal 1949 al ’51) la funzione di collegamento tra i Servizi di Sua Maestà e quelli a stelle e strisce. Insomma cercò per tutta la vita la talpa che aveva sotto gli occhi. E dopo che nel ’63 la carriera di Philby si concluse, con la sua clamorosa fuga a Mosca, Angleton sprofondò in un inutile gorgo di paranoia retroattiva, tanto da venir descritto così da un vicedirettore della Cia: «Ascoltare Angleton era ormai come guardare un quadro degli espressionisti. La mente di Jim era subdola e allusiva, le sue conclusioni… Si trattava sempre di fumo, accenni e bizzarre accuse».
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