Spiare è un’arte

Spiare è un’arte

James Hart Dyke, “embedded artist” nei servizi segreti di Sua maestà

Quando si dice la metafora servita su un piatto d’argento. Dell’arte che racconta i segreti dell’essere, che nasconde ciò che vuole per poi svelare gli enigmi più profondi dell’animo umano.
Il piatto d’argento in questione è stato consegnato al pittore britannico James Hart Dyke, già noto per aver ritratto più di una volta il principe Carlo, nientedimeno che dal rigorosissimo e famosissimo MI6, l’agenzia di spionaggio per l’estero del Secret Intelligence Service, il sistema di intelligence britannico. Che se in passato ha ispirato le cinematografiche gesta di James Bond e la piuma acuta e sottile di John Le Carré in La spia che venne dal freddo, ha deciso stavolta per festeggiare degnamente il suo primo centenario, compiuto nel 2009, di farsi immortalare dalle pennellate dell’arte. Perché in fondo anche spiare è un’arte. Complessa, disciplinata e severa. Per lo meno così l’hanno vista gli occhi di Hart Dyke che sceglie l’ambiguo tocco impressionista per dire e non dire, in perfetta sintonia con la filosofia del committente. Quaranta quadri, tra olii e acquarelli, adesso finalmente rivelati ed esposti a Londra al “Mount Street Galleries”, fino al prossimo 26 febbraio, in una mostra che almeno nel titolo è esplicita A Year with MI6, “Un anno con l’MI6”. Tutti realizzati appunto nel corso degli ultimi 18 mesi in cui “l’embedded artist” ha potuto seguire da vicino come in una spy story le mosse dei suoi protagonisti, ovvero gli agenti segreti, con l’obbligo di non rivelare a nessuno quanto avrebbe visto.
Hart Dyke, che in passato è stato anche artista di guerra in Iraq e Afghanistan, rivela come sia stato “assoldato” dall’MI6. «Ho ricevuto – racconta – una telefonata misteriosa da una persona con cui avevo lavorato. Il passo successivo è avvenuto in un pub». Insomma come da copione. Una volta accettato l’incarico nessuna informazione gli veniva fornita in precedenza sui viaggi che l’hanno portato anche oltreoceano, nessun nome formulato, solo i volti rivelati con il tacito accordo che la trasfigurazione dell’arte avrebbe dovuto fare il resto, innescando un gioco del “chi e è chi” quasi surreale. È lui stesso a raccontarlo.
«Penso che qualche agente non abbia neanche creduto che io fossi un artista. Piuttosto qualcuno inviato dai loro capi a controllarli».
E così eccole le tele del mistero, volti appena accennati resi ancora più vaghi dalla pennellata larga e rapida e dai colori scuri. Nessuno beve Martini o guida Aston Martin come James Bond, niente azioni spettacolari, l’iconografia classica dell’agente segreto è completamente demolita.
Semmai appare qualche birra in pub di cui si intravedono solo ombre e fumi e ancora gli uffici del quartier generale sul Tamigi a Londra, visti dall’interno e dall’esterno, perfino strade di Kabul in Afghanistan. E poi chiaramente loro, gli agenti. Qualcuno indossa occhiali da sole, nessuno sorride ma, quel che è più importante almeno per l’MI6, è che nessuno dei diretti interessati si può riconoscere.

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