Chiuso dal 19 gennaio 2011 a causa di un furto informatico, il mercato europeo dei diritti di emissione ancora non è completamente attivo. Solo quattro paesi, dal 4 febbraio, hanno dato sufficienti garanzie sull’affidabilità dei loro registri. Un sistema già molto discusso per la sua efficacia, oggi è messo in dubbio anche per la sua sicurezza ed efficienza.
Il mercato europeo delle emissioni di CO2, che dovrebbe rappresentare uno dei più avanzati modelli a livello globale di cap-and-trade, è stato messo sotto scacco da un gruppo di criminali informatici. Il 19 gennaio 2011, infatti, la Commissione europea ha deciso di sospendere le contrattazioni. Il motivo: hacking.
Per non entrare troppo nello specifico, dal 2005, in anticipo rispetto alla tempistica prevista dal Protocollo di Kyoto, la Comunità europea istituisce un mercato delle quote di emissione dei gas a effetto serra. In questo mercato, ogni Stato membro dell’UE ha un tetto massimo di emissioni che non può superare e che distribuisce tra gli impianti più inquinanti del Paese.
Nel caso in cui un’industria non riesca a rispettare il suo limite, però, può acquistare i ‘diritti di emissione’ necessari da un’altra industria tecnologicamente più avanzata, o che comunque è riuscita a produrre meno CO2 (o CO2 equivalente) di quanto consentito.
Il commercio dei diritti di emissione avviene mediante dei registri nazionali, che a loro volta fanno capo a un registro centrale europeo. Tutto ciò non è altro che un complesso sistema informatico attraverso il quale viaggiano dati sensibili di compratori e venditori.
Gli attacchi informatici hanno colpito i registri di Repubblica Ceca, Grecia, Estonia, Polonia e Austria, ma i danni sono stati limitati solo grazie ad un’immediata chiusura dell’intero mercato europeo. I ladri di CO2 sono comunque riusciti ad incassare circa 28 milioni di euro, monetizzando in pochi minuti sul mercato spot 2 milioni di diritti di emissione (tecnicamente chiamati EUA: European Union Allowance).
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