C’è chi lo blocca ma non vuole che si sappia troppo in giro, «non facciamo la figura dei censori». Chi lo consente ma su un solo computer, un’unica postazione free access per i momenti di pausa. Chi lo lascia invece libero e ne promuove l’uso tra i dipendenti. Facebook in azienda non riscuote un successo pari al suo reciproco: troppo svago, troppo rischio. Sempre più aziende sbarcano sui social network, ma «quella di vietare l’accesso ai dipendenti è una pratica molto diffusa, perché FB viene visto come la fonte di ogni attività online». Scordarsi le vecchie polemiche sull’uso delle chat, o di messenger in ufficio
Conversazione, condivisione foto e video, agenda, giochi. «Facebook – dice Vincenzo Cosenza, director di Digital PR, agenzia specializzata in social media che fa capo alla Hill&Knowlton – offre tutto in un unico ambiente, sostituisce l’esperienza di rete».
Perciò il divieto di FB è comune «tra le attività in cui la variabile tempo è più incombente, come le banche», spiega Cosenza, che gestisce un Osservatorio Facebook. «E di solito non ci sono “finestre” aperte durante la giornata: se c’è un blocco, è totale». Quanto conviene questo blocco? Poco, secondo una ricerca dell’Università di Melbourne. Se usati con parsimonia, i social network fanno anzi bene all’attività lavorativa: i dipendenti che li usano per meno del 20% dell’orario lavorativo risulterebbero il 9% più produttivi. Inutile dire che questa ricerca si scontra con altre realizzate da società specializzate in ottimizzazione di reti. Ipanema Technologies, interrogando alcune grandi aziende, ha visto che il 54% delle risorse di rete vengono assorbite da applicazioni che con l’attività aziendale c’entrano poco (Facebook, Youtube, Twitter). I manager It hanno un motivo in più per piazzare i loro paletti.
Quante sono le aziende italiane che negano l’accesso a Facebook? «Mancano dei dati aggregati di questo tipo», riflette Cosenza. «Sono almeno il 50%» per Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel, agenzia per il lavoro specializzata in ricerca e selezione di figure impiegatizie fino al livello middle management, «e molte non lo fanno sapere per paura di perdere candidati papabili». «In generale, timori di spionaggio industriale e perdita di produttività – prosegue Contardi – sono i due motivi principali che spingono le aziende alla censura. A temere che i propri dipendenti possano essere spiati attraverso i social network sono soprattutto le aziende che trattano dati sensibili, informazioni di terzi, brevetti, penso alle case automobilistiche».
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